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Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona, il macellaio guercio

Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona, il macellaio guercio

Figlio di Giulio I Acquaviva d’Aragona (1607-1626), conte di Conversano, e di Caterina Acquaviva d’Aragona, duchessa di Nardò, unificò le due linee di discendenza della famiglia. Succedette al padre nel 1626 e mantenne il suo ruolo di signore fino al 1665, anno della sua morte.

Detto il “Guercio” a causa di un difetto visivo (occhio strambo), Giangirolamo era considerato dai sudditi un uomo malvagio, vendicativo e, per questo, assai temuto: religioso e praticante (devoto ai Santi fratelli Martiri e Medici Cosma e Damiano)

Ancora oggi sopravvivono cupe leggende su di lui, non sorrette da valide documentazioni. Pare – e non fu l’unico – che si avvalesse dello ius primae noctis, e, tuttora, i conversanesi si dicono tutti figli del conte.

Ancora, si narra che, per esercitazione, sparasse dalla torre del castello alle povere donne che attingevano l’acqua dai pozzi, o facesse scuoiare i ribelli canonici di Nardò per tappezzare con le loro pelli le poltrone.

Il conte aveva la passione per i cavalli del suo pregiato allevamento (razza Conversano), avviato dall’avo Giulio Antonio I nel 1456.

Giangirolamo ebbe cinque fratelli di cui quattro monache. Una di queste, Donata, fu badessa mitrata del monastero di San Benedetto a Conversano. la Madre Superiora, infatti, esercitava il potere temporale (sul clero e a Castellana Grotte), caso unico per una religiosa.

La residenza del conte era soprattutto il castello di Conversano, ma trascorreva alcuni periodi anche nel casino di caccia di Marchione e ad Alberobello nel palazzetto-taverna.

Giangirolamo contribuì alla fondazione di Alberobello, attirando i contadini dei territori vicini a risiedervi.

Avendo dunque violato il regolamento regio (Prammatica Reale) ad Alberobello, lo spregiudicato conte, nel 1643, fu arrestato e trasferito a Napoli, infine a Madrid, per essere infine scarcerato nel 1646.

Nel luglio-agosto 1647 il conte fu inviato dal re di Napoli a domare la rivolta di Nardò e Lecce a seguito della rivolta di Masaniello a Napoli del 7 luglio 1647.

Dopo una trattativa di mediazione affidata al vescovo di Lecce, Pappacoda, dal 3 al 6 agosto 1647 invase le campagne di Nardò con 4000 armati e, oltre ad arrestare e processare i capi della rivolta, uccidere il sindaco, ne approfittò per eliminare alcuni avversari tra cui l’arciprete Filippo Nuccio e quattro abati che vennero archibugiati e decapitati e di cui fece collocare le mozze teste sugli stalli del Duomo. Rase al suolo parecchie case, vi sparse il sale, vi pose segni d’infamia.

Nel 1649, in seguito a nuovi e gravi abusi feudali, Giangirolamo fu di nuovo condotto a Madrid e rinchiuso in carcere, dove rimase per 16 anni, fino al 1665. In quell’anno, mentre si accingeva a rientrare in patria, morì, a 65 anni, forse per malaria.

Il corpo fu imbalsamato e tumulato nella cappella del Rosario del monastero di San Benedetto a Conversano.

 

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