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Oronzo De Matteis. Genesi di un Artista senza tempo

Oronzo De Matteis. Genesi di un Artista senza tempo

Yahweh – il Dio della Bibbia – impiegò sei giorni per creare il mondo e rendendosi conto che tutto era buono santificò il sabato perché fosse ricordata la buona creazione: ogni cosa fu sistemata al posto giusto, distinguendo per contrasto – la luce dalle tenebre, la terra dall’acqua… – e lasciando infine alla sua creatura prediletta di dare un nome ad ognuna.
Come dire che al suo primo sguardo Geova Dio non deve aver guardato le tenebre distinte dalla luce né il mare separato dalla terra – allo stesso modo l’Arte non ha potuto né saputo guardare in modo diverso da come il creatore di tutte le cose ha volto loro il primo sguardo per farne un bilancio – se fosse cosa buona o da rifare. Così che la creazione, anche se accaduta in giornate diverse, non ha sottinteso che a ciascuna cosa creata si potesse dare uno sguardo separato. Non si vedono le stelle separate dalla luce né si può ascoltare lo scroscio di pioggia senza che se ne vedano le nuvole. Insomma, trattandosi di un disegno compiuto gli si deve volgere uno sguardo che nella compiutezza possa coglierne le componenti – le loro implicite correlazioni che ne svelano la coerente armonia, la funzionalità delle correlazioni tra cose destinate comunque ad interagire. E dev’essere stato proprio questo il tipo di sguardo che l’uomo deve aver dato al creato per poter dare un nome a ciascuna cosa che lo stessoYahewh aveva di volta in volta riconosciuto cosa buona.
E come poteva inventarsi l’uomo il nome da dare ad ogni cosa che vedeva con i propri occhi biologici – dovendo confermare comunque il giudizio del Creatore che fossero tutte cose buone? Buone – per chi? Lo sguardo dell’uomo di certo fu inizialmente innocente – tanto che osservò il mondo allo stesso modo con cui il Creatore aveva considerato le cose appena create; finché la creatura prediletta si emancipò alla ragione riuscendo ad intravedere, ben oltre le cose distinte, l’intreccio delle loro correlazioni. Il pungolo della riflessione gli consentì approfondimenti che furono immediatamente invenzioni – quelle espresse dai cavernicoli di Altamira, di Lascaux, di Chauvet. Un’energia – questa della creatività – che viene attribuita agli artisti impegnati a produrre opere di cui si possa dire ogni volta che è cosa buona.
Un azzardo – a dire il vero – perché la fredda logica del ragionamento non sempre riesce a far tornare i conti: come può essere altrettanto “cosa buona” il mare di Vincent Van Gogh (che a Saintes Maries de la Mer lo induce a spingersi oltre il colore) che è del tutto diverso da quello di William Turner che nelle tempeste interpreta una sublime fatalità siglata da estreme espressività cromatiche (si pensi al Naufragio del 1805); per non dire dei sei naufraghi di Ivan Aivazonvsky che nel 1850 lascia intravedere, oltre la terribile nona onda (la più potente della sequenza distruttrice delle mareggiate), una luce di maestosa speranza che si erge sopra le acque.
Per una rappresentazione simbolica della forza di un’onda minacciosa, poi – senza l’insistenza su ricercati cromatismi naturalistici –, bisogna rifarsi alla “grande onda di Kanagawa” (1831) del giapponese Katsushika Hokusai. Il semplice fenomeno dell’onda – da contrapporre alla fragilità effimera dell’uomo – ricorre a narrazioni pittoriche tuttavia lontane dall’esprimere la densità delle paure ancestrali. Anche se Paul Gauguin – fondendo le tecniche dell’arte orientale e addensando le tematiche introspettive della sua raffinata spiritualità – riesce a declinare il cloisonnisme delimitando le figure con contorni marcati che chiudono colori in contrapposizione (si consideri L’onda del 1888). La rassegna potrebbe svilupparsi reclamando altre testimonianze – da Claude Monet e Giovanni Fattori, per es., fino a Margherita Sarfatti. Artisti che hanno raccontato il mare nelle sue varie forme, nelle diverse stagioni, nei diversi momenti della giornata… (si pensi allo sforzo dei macchiaioli impegnati a fissare gli effetti delle diverse intensità della luce sul paesaggio; o agli effetti indotti dalla “Scuola di Castiglioncello” degli anni Sessanta impegnata a scorgere la luce calda e rossastra che prende tono quando soffiano i venti caldi per realizzare quegli effetti luministici che coinvolgono gli elementi naturali di paesaggi sobri e solenni, scarni e terrosi.

E Oronzo De Matteis? Come si colloca il pittore dell’Oceano Mare in questa narrazione di una possibile pittura del mare?
Una risposta etnografica ci viene suggerita dall’osservazione di comportamenti che hanno preso forma di collezionismo in una utenza che continua a fruire le suggestioni artistiche del Pittore – dell’Artista delle onde oceaniche – in un tempo che però non dura quanto una qualche tempesta fuoriuscita dai colori del Maestro De Matteis, invece, travalica orizzonti generazionali con una ossessione insistita di pennellate che distendono sulle tele tinte che sanno della medesima natura ed origine delle vicende narrate. Ed è osservando la sua irrefrenabile produzione che viene il sospetto che forse il messaggio artistico di De Matteis non si limita nell’incorniciamento di onde che comunque sfidano ogni confine imposto da superfici sempre troppo limitate – per lui. Che di fatto, negli ultimi cinquant’anni, viene ancora cercando-si in tele sconfinate – almeno rispetto ai centimetri concessi dalle mini abitazioni proposte da soluzioni architettoniche che supportano e conciliano la compatibilità urbanistica con l’ormai incontenibile espansione demografica.
Ma non c’è stato verso che De Matteis si lasciasse condizionare dalla logica di un mercato a cui si adeguano più i collezionisti dei manufatti artistici che non gli amanti dell’arte. Anche se ad entrambi il Maestro ha riservato comunque l’autenticità di un messaggio che di fatto può esser colto nelle micro-composizioni confezionate per mini-appartamenti come nelle macro-tele che fanno bella mostra in studi professionali o nelle prestigiose Sedi di multinazionali sulla 5th Avenue di Manhattan.
La sua arte ha saputo rispettare le differenze – a ciascuna consentendo di individuare quel seme di cosa artistica creata così tanto dal nulla da meritare che da ciascuno ricevesse un nome – avendola ognuno riconosciuta cosa buona.
E che dire della sua fissa di mostrarti le sue tele – specie quando vai a fargli visita nello scantinato dove accatasta quadri d’ogni misura o anche se vai a trovarlo nei locali di fortuna dove allestisce una sua mostra – di mostrartele “fuori” perché tu possa scorgere quei cambiamenti di pigmenti in cui vibrano cromature inesistenti – né realistiche né metafisiche, che prendono significato che per chi guarda acquista un senso dopo che gli occhi biologici e quelli della mente riconoscono che certamente è cosa buona.
Quando dovesse compiersi una improbabile storia della pittura del mare – e quando i paragrafi di tale storia impossibile avranno ad oggetto spiagge dorate spianate da brezze o scogliere sgretolate dagli urli di spumeggianti burrasche – le mareggiate o gli increspi d’onda mostreranno sempre la sorpresa di un cromatismo appena accennato o anche sul punto di esaurire la tonalità che si espresse nelle pennellate che ne cercarono l’inedita espressione colorica che in De Mattais rimane sempre catturata e imbrigliata tra toni metafisici – tra espressioni d’una filosofia che non si compie se non per lo sguardo di chi sappia veramente riproporla all’occhio biologico impegnato a darle un nome. Non uno qualunque – ma quello che si merita ogni colore che sia stato elaborato e proposto in una produzione artistica quale fin qui ha saputo darci il Maestro dell’Oceano Mare – Oronzo De Matteis.
Un dono, invero, che De Matteis continua a predisporre per chiunque si lasci incantare dai suoi colori, o dalla forza delle sue onde, o dai toni metafisici dei suoi azzurri fino a talune rare ambientazioni notturne – con un desueto gesto performativo che ha saputo riversare in ogni sua tela (micro o macro che sia).
Così ogni occasione didattica che gli è stata concessa di proporre ad adolescenti e ragazzi – a cui è rimasta memoria di un’esperienza che continuano a cercare visitando le mostre del Maestro, portandogli quaderni inchiostrati e chiedendogli un giudizio – sistematicamente si riassume nel riconoscimento del Maestro, che si dice soddisfatto per la liberazione delle loro attitudini espressive, incalzandoli a cercare non solo forme ma la forma di ogni forma – quell’involucro di luce che ognuno deve ogni volta poter vedere per la prima volta. Così da dargli un nome, riconoscendo che è davvero cosa buona. Non sarà come Yahweh, De Matteis, ma come ogni cosa da Lui creata risultò cosa buona, altrettanto le cose create dal Maestro Pittore risulteranno cosa buona se solo i suoi fruitori sapranno riconoscere quell’inusuale cromatismo che è comunque presente delle sue onde oceaniche, dandogli il nome poetico che merita.

di Vito Antonio D’Armento

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